Articolo in italiano di Alessio Martellotti
foto di Alessio Martellotti
Piazza di S. Pietro in Montorio, 2 – Roma (RM)
Il convento annesso alla Chiesa romana di San Pietro in Montorio presenta due cortili, nel maggiore dei quali sorge al centro il celebre Tempietto del Bramante. Questo piccolo monumento, opera di Donato di Angelo di Pascuccio detto il Bramante, è generalmente considerato uno dei capisaldi della ricerca architettonica rinascimentale: fu eretto nei primi anni del Cinquecento (tra il 1502 e il 1509) e restaurato dal Bernini un secolo dopo. La struttura ha forti ascendenze classiche con schema architettonico tipico della “tholos” a pianta circolare dell’architettura greca; si compone infatti di un corpo cilindrico avvolto da una peristasi di colonne di ordine tuscanico che sorreggono una trabeazione decorata da un fregio dorico sopra la quale poggia un’elegante balaustra; la copertura è costituita da una cupola su cui si innesta, in alto, la sottile lanterna. Nelle intenzioni dell’architetto, il cortile stesso doveva assumere un aspetto curvilineo – a base ellittica con portico colonnato – per esaltare maggiormente l’eleganza dell’edificio e completare così una simbiosi geometrica mirata a creare un effetto di ampliamento spaziale che avrebbe conferito maggior respiro al Tempietto, mantenendo la suprema armonia di dialogo architettonico tra le parti. Per motivi finanziari però, il portico non fu mai realizzato e il Tempietto si trova oggi compresso nel cortile rettangolare accanto alla chiesa di San Pietro in Montorio. Di questo si rammaricò anche il sommo Vasari, quando narra che Bramante “…fece ancora San Pietro a Montorio di trevertino nel primo chiostro un tempio tondo, del quale non può di proporzione, ordine e varietà imaginarsi, e di grazia il più garbato né meglio inteso; e molto più bello sarebbe se fusse tutta la fabbrica del chiostro, che non è finita, condotta come si vede in uno suo disegno…“. Sarà proprio Giorgio Vasari, in veste di pittore, a citare per primo il Tempietto (in modo fedele e accurato) in un suo affresco del 1573 dedicato alle “Storie della notte di San Bartolomeo” conservato oggi nella Sala Regia dei Musei Vaticani.
Il fascino del monumento venne divulgato ampiamente per tutto l’arco del Cinquecento dai grandi trattatisti, come Sebastiano Serlio e Palladio, annoverandolo tra i massimi monumenti della Roma classica e divenne un modello irrinunciabile per gli architetti del Neoclassicismo settecentesco. Ma il tempietto non ha ispirato solo gli architetti. Oltre al già citato Vasari pittore, già durante la sua edificazione Raffaello lo riprende nel suo celebre “Sposalizio della Vergine” del 1504. Nella sua versione però, la peristasi architravata diventa archivoltata, la pianta diventa esadecagonale (cioè a 16 lati) e soprattutto le proporzioni sono nettamente più grandi (il tempietto è invece alto poco più di 10 metri).
Qualche anno dopo Federico Barocci lo inserisce sullo sfondo della scena della “Fuga di Enea da Troia”. La collocazione è incongrua sia in senso spaziale che temporale ma, il senso è quello di collegare la storia di Enea alla fondazione di Roma e alla sua successiva identità cristiana. Allo stesso Barocci si deve un disegno del Tempietto che lo mostra nelle forme originali, prima dell’innalzamento della cupola operato nel Settecento.
Nel 1635 l’edificio viene citato da Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, sullo sfondo di uno dei suoi tanti dipinti dell’Immacolata Concezione, come simbolo della Chiesa romana e della sua origine con la morte di San Pietro.
Nei secoli seguenti il Tempietto è oggetto di raffigurazioni di ogni genere che ne evidenziano di volta in volta l’aspetto rigorosamente geometrico, quello più romantico e idealizzato.
Ma a cosa si deve un successo così duraturo e universalmente condiviso? Sotto il profilo puramente tecnico, la perfezione del tempietto è ottenuta attraverso un sistema di proporzioni basate su un modulo geometrico che dona all’edificio un pacato equilibrio, percepito dal nostro occhio come armonica-indossolubile composizione tra gli elementi. Tuttavia vi è un’alchimia che lo rende unico e profondamente amato anche al più profano degli spettatori; forse perché quella forma così perfetta non era solo un’ambizione rinascimentale, ma un eterno bisogno dello spirito; per la serenità che infonde l’impeccabile proporzione tra masse e vuoti, tra luci ed ombre. Per il rigore del linguaggio: severo e al tempo stesso magicamente delicato. O forse perché l’architetto è semplicemente riuscito a creare un classico più classico dei classici. È così che appare il Tempietto di San Pietro in Montorio, il gioiellino romano di Donato Bramante: piccolo, ma potente ed eterno!